È legittima la clausola dello statuto di società per azioni non quotata che attribuisce al socio il diritto di recesso ad nutum, ossia il diritto di fuoriuscire dalla società (ottenendo la liquidazione delle sue azioni al loro valore corrente) a insindacabile giudizio del socio stesso, esercitabile in qualsiasi momento del periodo di durata della società, anche se costituita a tempo determinato.
Lo decide la Cassazione nella sentenza 2629/2024 di ieri, in riforma di una contraria pronuncia del tribunale di Cagliari (emanata a seguito dell’impugnazione di un lodo arbitrale), nella quale è stata ritenuta affetta da nullità una clausola statutaria che consentiva il recesso ad nutum dei soci.
La corte sarda aveva argomentato detta decisione con il rilievo che il terzo comma dell’articolo 2437 del Codice civile contempla il recesso senza giusta causa solo nelle Spa costituite a tempo indeterminato, mentre nulla è disposto al riguardo per quelle costituite a tempo determinato. Il tribunale di Cagliari ha altresì argomentato che, secondo la filosofia sottesa alla riforma del diritto societario del 2003, il recesso è previsto essenzialmente come una tutela per il socio dissenziente e, dunque, solo come reazione del socio a eventi relativi alla vita societaria tali da giustificare la sua uscita dalla società stessa; e che il predetto terzo comma dell’articolo 2437 avrebbe natura eccezionale con riguardo alla previsione del recesso ad nutum, il quale, quindi, non sarebbe configurabile al di là del caso in cui è espressamente previsto.
La Cassazione osserva invece che, con la riforma del 2003, sono stati abbandonati i principi che caratterizzavano la legislazione previgente, vale a dire la tassatività delle, peraltro limitatissime, cause di recesso e la preferenza per l’interesse all’integrità del patrimonio sociale (con conseguente liquidazione “punitiva” per il socio uscente). Infatti, al fine di incentivare l’investimento azionario, la legge oggi non solo prevede un vasto panorama di ipotesi in cui il recesso è consentito, ma anche evidenzia il superamento dell’idea di un recesso esercitabile esclusivamente come reazione del socio contro talune deliberazioni decise dalla maggioranza.
In questa logica, la legge di riforma ha notevolmente ampliato l’autonomia statutaria prevedendo, accanto all’aumento delle ipotesi di recesso ex lege, inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico, che lo statuto possa contemplare anche ulteriori cause di recesso, rispetto a quelle dettate dalla legge stessa.
Pertanto, il recesso oggi spetta non più solo in presenza di decisioni assembleari non assentite dal socio, ma anche in tutti quei casi in cui, nello statuto delle società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio, siano liberamente previsti casi in cui sia riservata al socio la facoltà di fuoriuscire dalla società, compreso quello del recesso che il socio può esercitare in qualsiasi momento, senza dover motivare alcunché e senza correlazione ad alcun evento della vita societaria.
In altre parole, con la legge di riforma del 2003 è stata superata l’idea di un recesso fondato esclusivamente sulla reazione del socio avverso alcune deliberazioni decise dalla maggioranza; invece, l’istituto tende ora ad assecondare la scelta dell’investitore, che decida di vendere i propri titoli per ragioni anche diverse e indipendenti dalle altrui decisioni non condivise.